Da Cento Anni di Chirurgia
Eugenio Santoro, Luciano Ragno
Quell’inverno del 1966 era cominciato dolcemente senza freddo e senza pioggia come molti inverni romani di quei decenni. L’Italia del boom godeva della stabilità dei Governi presieduti da Aldo Moro: poca inflazione, poca conflittualità, molto benessere, consumismo e assistenzialismo. Nessun presagio evidente del ‘68 che pure era alle porte. Roma capitale cresceva di immigrazione ed alta natalità e con essa si espandevano i quartieri dormitorio e le borgate.
In questi primi giorni di novembre ’66 Roma ritrovava il suo volto di Capitale della pace: era arrivato Arvell Hariman, Ambasciatore viaggiante del Presidente Johnson, per discutere col governo italiano la soluzione negoziale per la pace in Vietnam. Dopo gli incontri cordiali con Moro, Nenni e Fanfani, Hariman aveva incontrato Paolo VI e gli aveva illustrato i risultati della Conferenza di Manila: tutto il Sud est asiatico aveva fatto pressione sugli USA per la pace.
Hariman portava dunque un soffio di speranza e dopo Manila lo stesso Johnson era andato in giro tra Nuova Zelanda, Australia e Thailandia proprio a spiegare che anche per gli USA, dopo anni di rovinosa guerra, ormai la prospettiva era una dignitosa pace. Ma in quei giorni Roma si era risvegliata nella bufera atmosferica con raffiche di vento a cento all’ora, alberi sradicati e tetti volati via. Era l’antefatto di un cataclisma imminente: quel sabato a Firenze verrà giù l’alluvione più importante del Secolo e la città verrà sommersa di acqua e fango.
Quella sera del solito primo mercoledì del mese, come da tradizione, c’era nell’aula della Clinica chirurgica del Policlinico Umberto I una Seduta Scientifica della Società Romana di Chirurgia. Tra i busti di Durante che domina l’atrio e quelli di Alessandri e Paolucci che si affacciano a lato delle porte di accesso, in quell’aula c’era, e c’è sempre, un’aura da storia della chirurgia.
Dunque presiedeva Pietro Valdoni, grande Maestro, erede di quei grandi Maestri e Direttore della Clinica Chirurgica. Per lui nel futuro in quell’aula non ci sarà il busto ma una targa che gli dedica l’anfiteatro.
Nella folla di assistenti e aiuti della Università e degli Ospedali erano presenti tutti o quasi i pochi che contavano: gli altri due Professori Ordinari, Paride Stefanini patologo chirurgo e Giovanni Marcozzi semeiotico, ed i Primari Ospedalieri dell’epoca, Guido Chidichimo del ”San Giacomo” ancora chirurgo generale ma già col cuore e la mente alla cardiochirurgia, Mino Moraldi del “S. Spirito”, i due fratelli Sciacca, Ferdinando del “San Giovanni” e Beniamino del “Sant’Eugenio”, Giuseppe Grassi pure lui del “San Giovanni”, fresco fondatore del Collegium Internazionale Chirurgia Digestiva, e Guerrieri del “San Camillo”, reduce da un incarico universitario a Perugia, Mazzarella Farao del “S. Filippo”. Mancavano quelli che frequentavano meno, i fratelli Sovena, Enrico ed Aldo, Margottini del “Regina Elena”, De Lollis del “Fatebenefratelli”, Carlo Santoro ancora Primario al “San Camillo”, che era il Decano dei primari, già alla soglia della pensione e che sopravviverà a tutti, morendo quasi centenario.
Quando Valdoni, seduto da solo dietro la lunga Cattedra, le gambe accavallate e la testa reclinata sulla spalla, prese il microfono si fece immediato silenzio, come sempre succedeva per il suo carisma. “Prima di iniziare la seduta – disse – voglio comunicare che da oggi il professore Paride Stefanini non è più Professore di Patologia Chirurgica ma di Clinica Chirurgica”.
Tacque e ci fu un applauso. Stefanini seduto in prima fila, abito grigio, baffi e capelli già bianchi, si alzò e ringraziò con un cenno di inchino: quel giorno era iniziata una nuova fase della Storia Medica e Chirurgica Romana, quella della moltiplicazione delle Cattedre e dei Primariati, delle Facoltà di Medicina e degli Ospedali.
Nei quasi cento anni precedenti, quelli di Roma capitale d’Italia a partire dal 1870, l’unica Facoltà della Università “La Sapienza” aveva avuto pochi Professori di chirurgia, mai più di tre, ed il Pio Istituto di S. Spirito, gigante ospedaliero che raggruppava gli Ospedali ;della città, aveva avuto pochi Primariati di Chirurgia fino ad un massimo di dieci. Per antica tradizione preunitaria, il Clinico chirurgo era stato uno dei Primari e risiedeva nel suo Ospedale. Costanzo Mazzoni, primo Presidente della Società Italiana di Chirurgia tra l’82 e l’85, era Primario al “S. Spirito” (il più antico Ospedale Italiano, costruito nel 1198) e lì insegnava. Solo nel 1899 per volontà di Baccelli, grande Clinico Medico e Ministro della Pubblica Istruzione, e di Francesco Durante, secondo Presidente della Società Italiana di Chirurgia, successore di Mazzoni anche nella Cattedra, e Senatore del Regno, fu costruito e inaugurato il “Policlinico Umberto I”, eletto a sede dell’Università oltre che Ospedale. Vi si trasferirono tutti i Clinici, e tutti i Docenti ed i Primari Ospedalieri che vi operarono sino agli anni ’70, conservarono la qualifica di Professori Aggregati.
Il Policlinico dunque divenne il cuore Accademico della Città Medica, qui si formeranno per tutto il secolo quasi centomila medici. Non fu tutta gloria. Lo racconta Raffaele Paolucci di Valmaggiore nel suo libro autobiografico II mio piccolo mondo perduto. Il 7 novembre 1938 fu chiamato a succedere a Roberto Alessandri alla Direzione ed alla Cattedra della Clinica Chirurgica del “Policlinico Umberto I”. Paolucci lasciava il cuore a Bologna ove aveva insegnato e lavorato per molti anni all’Ospedale Policlinico “S. Orsola”. Il contrasto tra quella realtà tranquilla e ordinata e la Roma Capitale dell’Impero fu traumatico.
Erano anni che non rivedevo la Clinica Chirurgica di Roma, da quando la frequentavo come aiuto volontario di Alessandri, negli anni tra il 1922 ed il 1924. Ricordavo che odorava di vecchiume, mi accorsi che il ricordo era molto migliore della realtà.
Mi sentii cadere le braccia. Un’aula altissima con la volta a cupola, come una chiesa, con i gironi di cemento ed amianto; la voce si disperdeva e bisognava sgolarsi per farsi intendere, ed in questo sforzo affannoso se ne andavano i pensieri, emigravano le idee, era impossibile non diventare monotoni e noiosi gridando sempre dal principio alla fine.
La gioia dell’insegnamento era perduta.
Ma perché non rinnovavano in quel momento la Clinica? Da un lato si parlava di spese militari improrogabili ed urgenti, dall’altro stava il fatto che decine e decine di milioni erano già stati spesi per la Città Universitaria.
Ed ora eccomi là in quel letamaio ove non ci poteva neppure rinchiudere nel proprio guscio e lavorare in silenzio, chè la clinica si svolgeva lungo i corridoi in comunicazione con altri reparti, e per questi corridoi passavano le cibarie, passavano i panni sporchi e puliti, passavano i carrelli del latte e delle medicine, passavano i parenti degli ammalati, passava senza tregua una folla innumerevole di medici, di studenti, di facce note ed ignote, di uomini frettolosi e di tardigradi affaccendati.
Una biblioteca a piano terra, delle sale operatorie decrepite. Dei laboratori sguarniti, pieni di uggia e di umidore, un reparto radiologico anche esso a pian terreno, e, tolte due sale passabili, le altre con gli ammalati ammassati l’uno accanto all’altro, in una promiscuità inverosimile.
Così era, questa è la Regia clinica chirurgica della Capitale.
Paolucci si adattò alla vita romana.
Il Regime, col quale ebbe un rapporto sofferto, lo nominò (così voleva lo Statuto dell’epoca) Presidente della Società Italiana di Chirurgia nel 1940 e tale rimase sino al 1946. Fu anche nominato Vicepresidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Tenne la Cattedra per quasi venti anni. Attraversò la guerra, la caduta del regime, quella del Regno e la ricostruzione. Sopportò e forse soffrì, i Primari Ospedalieri arrembanti, veri eredi della Scuola Romana, che dirigevano i tre Padiglioni chirurgici del Policlinico proprio dietro la Clinica Universitaria. Nomi importanti quelli di Egidi, Chiasserini, Mastronola, Puccinelli, Urbani e dovette convivere con Bastianelli, il più grande di tutti, di lui molto più anziano e che pure gli sopravvisse.
Raffaele Bastianelli era nato nel 1863 nella Roma di Pio IX. Era, dunque, bambino quando i bersaglieri del Re d’Italia entrarono a Roma destinata Capitale d’Italia. Si laureò 24enne nel 1887 con una tesi sui movimenti del piloro che ottenne il Premio della Fondazione Girolami e l’onore di essere pubblicata in Italia ed all’estero. Quell’anno stesso, appena laureato, tempi felici, divenne Aggiunto all’Ospedale S. Giacomo e l’anno dopo Aiuto.
Nel 1896 a 33 anni diventò Primario all’Ospedale della Consolazione, uno dei sette ospedali storici di Roma. Quando le ruspe spazzarono via il Borgo tra il Campidoglio ed il Colosseo per far posto alla Via dell’Impero, anche l’Ospedale della Consolazione scomparve per sempre e Bastianelli, per così dire in mobilità obbligatoria, andò Primario al Policlinico ove rimase sino al 1931.
La sua chirurgia era entrata dalla cronaca nella leggenda. Di lui Cushing, grande ed indimenticato maestro statunitense, disse che era il miglior chirurgo che avesse mai visto operare. Nel 1893 aveva operato e pubblicato un caso di tumore del mediastino. Due anni più tardi un sarcoma della fossa cranica anteriore. Nel 1895 pubblicò una monografia sulle infezioni delle vie urinarie ed all’inizio del nuovo secolo vari lavori di Chirurgia dell’anca. Cultura poliedrica dunque, capacità chirurgica senza limite. Aveva operato negli oltre 40 anni della sua vita ospedaliera la Roma povera e la Roma ricca, gente di tutto il Paese venuta da lui alla ricerca della salute, ed anche la Casa Reale. Due anni prima del pensionamento, dunque per i suoi grandi meriti professionali fu nominato Senatore del Regno. In quel 1931, quasi settantenne, cominciò la sua seconda vita e fu chiamato a dirigere il nascente Istituto Tumori dedicato alla Regina, l’Ospedale Oncologico della Capitale.
Contribuì con Pietro Baccelli anch’egli Senatore e Presidente degli Ospedali Fisioterapici, Ettore Marchiafava, Alessandro Massea, Francesco Pentimalli e agli architetti Danesi e Negri a realizzare l’Istituto e che da allora ha sempre rappresentato un riferimento certo e qualificato per tutta l’oncologia italiana. Diresse il “Regina Elena” per quasi 20 anni sino al 1950 quando ad 87 anni fu nominato Direttore onorario. In quegli anni aveva partecipato alla Fondazione della Lega italiana per la Lotta contro i Tumori della quale fu poi il Presidente effettivo e Presidente onorario. Nel 1947 presiedette il 49° Congresso della Società Italiana di Chirurgia. E fu, nei primi cento anni di vita della Società, l’unico non accademico romano ad aver avuto questo alto onore. Tre anni più tardi, nel 1950, al 52° Congresso di questa Società, fu relatore sul cancro del retto. Quella relazione di mezzo secolo fa contiene, anche per l’odierno lettore, tante verità insuperate e tante eccezionali intuizioni. Meritò, se così si può dire, l’elogio diretto del professor Abel, allievo ed erede di Williams Miles, padre della chirurgia rettale, morto 78enne, tre anni prima.
Lasciato il “Regina Elena”, Bastianelli continuò la propria attività chirurgica nella sua Clinica personale che aveva costruito in via Morgagni e che dopo la sua morte cessò di esistere. In quella Clinica visse i suoi ultimi anni, un po’ solo per l’inevitabile premorienza di amici ed allievi e soprattutto dopo la morte dei fratello medico che come lui aveva preferito la medicina ad ogni altra scelta di vita, compresa la famiglia. Insieme avevano viaggiato il mondo da giovani riportando dagli Ospedali inglesi, tedeschi ed americani, novità, scienza, strumentario, progresso. Insieme sugli scanni del Senato; quasi insieme morirono, in quei primi anni dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, loro che erano nati nel Risorgimento.
Merita di essere ricordata la storia che vuole Guido Egidi introdursi inosservato nella camera operatoria di Paolucci, mentre questi era alle prese con un’ulcera duodenale difficile. Egidi era un noto chirurgo gastrico rapido ed essenziale ed era Autore di un atlante di chirurgia dello stomaco. Quando alla fine Paolucci stanco lasciò il tavolo operatorio, si trovò a sorpresa davanti Egidi sorridente che lo salutò ricordandogli, in memoria della impresa di Fola, che poteva essere più facile affondare una nave che non il duodeno!
Ma per Paolucci, che pure fu grande Maestro di Chirurgia e pioniere della Chirurgia Toracica, gli ultimi anni nella neonata Repubblica, furono quelli della competizione con Pietro Valdoni, più giovane di lui di quasi 10 anni, erede diretto di Roberto Alessandri, ritornato a Roma nel 1946 come Patologo Chirurgo, astro brillante della Chirurgia Italiana, grande Chirurgo e grande Leader, creatore della cardiochirurgia a Roma ed in Italia.
Paolucci morì a 65 anni nel 1958. Il suo cuore cedette all’improvviso. Aveva sopportato grandi eventi da quando nel 1917, giovane tenente, a nuoto col maggiore Rossetti, aveva forzato la difesa del porto di Pola ed attaccato la torpedine esplosiva sotto la “Viribus Unitis”, corazzata austriaca considerata invincibile, provocandone il clamoroso affondamento. Ebbe, giusta ricompensa, la medaglia d’oro al valor militare.
La scomparsa improvvisa di Paolucci aprì una lotta di successione inattesa. Candidato naturale era Ettore Ruggieri, allievo dello scomparso e Clinico Chirurgo a Napoli. Prevalse invece Paride Stefanini anch’egli Chirurgo eccellente, aggressivo e moderno e grande amico di Valdoni.
Insieme erano stati assistenti di Alessandri e la famosa notte in cui Valdoni fece l’embolectomia polmonare, era Stefanini che lo aiutava. Quel rendiconto operatorio del 1935 è straordinario.
Opera il dott. Valdoni; assiste il dott. Stefanini. Senza disinfezione delle mani si indossano i guanti sterili, poi i camici; disinfettata la pelle con tintura di iodio si prepara il campo sterile. L’intervento s’inizia al 7° minuto dall’avvenuta embolia. Dagli esperimenti eseguiti su cadaveri, avevo notato come fosse più facile di aggredire il pericardio e di scollare la pleura sostituendo alla incisione del Meyer (a T rovesciato con resezione della 2a e 3a costola) una incisione parallela al margine sinistro dello sterno con resezione della 2a, 3a e 4a cartilagine costale. In questa maniera la breccia è più ampia, non vi è bisogno di resecare il margine sternale e nell’angolo inferiore si domina bene il seno pleurico nel tratto in cui devia verso sinistra dalla linea mediana, lasciando scoperta l’aia pericardica.
Si pratica rapidamente l’incisione verticale parasternale. Il malato che in questa fase ha ancora dei movimenti respiratori spontanei non reagisce affatto alle manovre praticate senza alcuna anestesia. Si incide il pettorale e si scoprono la 2a, 3a e 4a cartilagine costale dalla inserzione alla prima porzione della costola ossea. Rapidamente si speriostano le tre cartilagini che vengono resecate. Legatura del fascio vascolo-nervoso intercostale 3a e 4a. La pleura è quasi completamente trasparente ed è ben visibile il disegno polmonare. Scoperto il pericardio in basso, questi appare quasi del tutto coperto dal seno pleurico anche in basso. Nella manovra di scollamento del seno pleurico questo si lacera e l’aria entra con un rumore caratteristico. Il polmone però si collassa poco per lo stato di enfisema polmonare in cui si trova. Aperto il pericardio verso la punta del cuore, da esso fuoriesce scarsa quantità di liquido citrino chiaro. Con un colpo di forbice si completa l’apertura del pericardio fino alla base del cuore mettendo in evidenza, l’arteria polmonare. Il ventricolo destro è disteso, le vene coronarie bene appariscenti, il muscolo cardiaco flaccido. Le contrazioni cardiache sono irregolari, poco valide o fibrillari. Per mezzo della sonda di Trendelenburg passata sulla guida del dito si mette in sito il laccio di gomma attorno all’aorta e si incide l’arteria polmonare poco sopra le valvole per 2 cm. verso l’alto. Esce dal cuore un grosso fiotto di sangue nero che si arresta con la trazione sul laccio; assieme al sangue è uscito un frammento di trombo di 10 cm., molto grosso. L’introduzione della pinza da embolo nel ramo destro non riesce; senza insistere dopo il primo tentativo si introduce la pinza nel ramo sinistro e si estrae un embolo lungo 27 cm. che si rompe in 3 frammenti di cui l’ultimo viene estratto con una nuova presa. Si allenta il laccio e si chiude con il dito l’incisione.
Poiché il malato non respira, si praticano manovre di respirazione artificiale e il cuore che era diventato immobile riprende a pulsare dopo alcuni colpi, impressi con il dito sul muscolo. Ristabilitasi in circa un minuto la contrazione cardiaca valida, si tira nuovamente sul laccio e si estrae dal ramo destro un embolo di 27 cm. non frantumato. Nuovo allentamento del laccio e chiusura digitale dell’incisione. Riprende ora il respiro, la pulsazione cardiaca si fa valida. Tirando di nuovo il laccio si applica lateralmente la pinza da sutura. Sono passati 13? 30? dall’inizio dell’embolia. Ora il malato ha ripreso bene il respiro e la pulsazione che si trasmette anche alla periferia. Si aspira del sangue versato nella pleura e si deterge il campo operatorio. Il polmone che nonostante l’apertura della pleura si espande bene, viene divaricato dall’assistente all’esterno. Il malato incomincia ad agitarsi, a dire parole sconnesse e deve venire tenuto fermo sul campo operatorio. La sutura della polmonare viene praticata come sutura continua a tutto spessore con seta vasellinata e presenta difficoltà notevole per la profondità del campo operatorio e specialmente per la continua espansione del polmone. Occorre dare per due volte dei punti supplementari per assicurare una emostasi completa togliendo e rimettendo per due volte ancora la pinza da sutura, la cui messa a posto richiede sempre la trazione sull’aorta con il laccio. La sutura riesce finalmente emostatica.
Si asciuga con tamponi una parte del sangue versato e si mette un punto di accostamento del lembo sinistro del pericardio ai resti del muscolo pettorale sul margine destro dell’incisione. La sutura dei due foglietti pericardici è impossibile per il notevole divaricamento dei margini prodotto dalla distensione del cuore. Segue la sutura del pettorale, del sottocutaneo e della pelle con grappette.
Alla fine dell’intervento si pratica una piccola incisione sulla ascellare media nell’8° spazio intercostale e si introduce nel cavo pleurico una sonda di Pezzer a tenuta d’aria a cui si applica subito il tubo che porta alla bottiglia di aspirazione. Dal cavo pleurico esce aria e sangue. La sutura cutanea è stata fatta senza anestesia ma ha provocato manifestazioni molto notevoli di dolore da parte del malato. Il malato viene messo a letto inconscio e delirante. Si pratica un’iniezione di Digalén, di canfora e di morfina. Il polso è ben percettibile, leggermente aritmico, la pressione arteriosa massima di 95, minima di 65. Nel pomeriggio il malato è ancora delirante, il polso è sempre valido, vi è modica dispnea. Il tubo di aspirazione non drena più. Al malato si somministra ogni 4 ore un’iniezione ipodermica di morfina e di eupaverina. Il giorno seguente vi è un leggero miglioramento nelle condizioni del malato, l’agitazione è diminuita e si alimenta bene. In terza giornata sono scomparse le aritmie e si continua ogni 6 ore l’iniezione di eupaverina. Con inalazioni di benzoato sodico ogni 2 ore la dispnea diminuisce notevolmente. Una radiografia eseguita al letto del malato mostra che non vi è traccia di pneumotorace, mentre vi è un versamento alla base di sinistra. Ha piccole elevazioni termiche. In quarta giornata scompare il delirio; il polso è regolare, ritmico e il malato si nutre abbondantemente. Si toglie il drenaggio pleurico dopo essersi accertati che il cavo del drenaggio è separato dal cavo pleurico contenente liquido. Da allora le condizioni vanno rapidamente migliorando nonostante la persistenza del liquido raccolto nel cavo pleurico di sinistra. Le piccole elevazioni termiche sono scomparse e il malato è in condizioni così buone che in 14a giornata si alza e da solo può fare alcuni passi. La ferita operatoria è guarita per prima men che in corrispondenza dell’angolo inferiore dove vi è una necrosi superficiale e molto limitata nel sottocutaneo. Il malato per 3 giorni si alza si nutre regolarmente; dopo il quarto giorno insorgono però edemi degli arti inferiori del sacro. Per suggerimento del prof. Frugoni si praticano delle iniezioni di tachidrolo e vari cardiocinetici e si procede frazionatamente all’estrazione del liquido pleurico nella quantità complessiva di 1300 cmc. Questo è di colore chiaro ed ha caratteri d’un essudato. Dopo l’estrazione il liquido non si riforma più però persistono più accentuati alla sera gli edemi sacrali e degli arti inferiori. Un elettrocardiogramma mette in evidenza delle alterazioni che possono ricondursi a fatti non molto gravi di alterato circolo coronario, mentre l’esame radiologico e radiografico fa escludere la presenza di liquido nel cavo pericardico. Gli edemi sono con tutta probabilità in rapporto con lo stato di indebolimento del miocardio. In seguito alle cure assidue il malato va migliorando. (Ringrazio qui caldamente il prof. Frugoni e l’amico prof. Pozzi, suo aiuto, per l’interessamento preso al caso e per l’esito così favorevole delle cure condotte). A un mese di distanza dall’intervento il malato è decisamente avviato verso la guarigione. Gli edemi sono quasi del tutto scomparsi e limitati alle regioni malleolari e scompaiono durante il riposo notturno. La crisi sanguigna è andata pur essa migliorando e il numero di globuli rossi è aumentato da poco più di 2.000.000 a 3.600.000 circa. Il malato è in ottime condizioni psichiche, si nutre abbondantemente. La diuresi è perfetta. Il liquido pleurico non si è più riformato. L’esame radiografico mostra lo spostamento dell’aia cardiaca verso destra non ingrandita, con una modica dilatazione aortica con una chiazza di calcificazione.
Il miglioramento va sempre più accentuandosi e il malato abbandona la Clinica il 18 gennaio completamente guarito persistendo ancora soltanto un modico grado di anemia.
Con la fine degli anni di Alessandri, le strade di Valdoni e Stefanini si erano separate. Valdoni, accademico, attendista, elittario, andò in cattedra a 39 anni nel 1939 appunto, prima Cagliari, poi Modena, poi Firenze in rapida successione, infine Roma nel 1946. Stefanini, più irruento ed avventuroso, andò prima aiuto al “S. Giacomo”, tentò senza riuscirvi il Primariato del ” Fatebenefratelli” ed alla fine, era il 1941, scelse L’Aquila, quando il capoluogo abruzzese era una rocca davvero poco accessibile da Roma e dal resto del mondo. Lì inventò una chirurgia che non c’era mai stata, divenne in breve il Chirurgo di tutto l’Abruzzo, ossia di quelle tante montagne. Alla fine della Guerra i suoi meriti, la stima e l’amicizia di Ermini, Rettore dell’Università di Perugia (sarà poi Ministro della Pubblica Istruzione) gli valsero la Cattedra in quella Università.
Fu forse per la chirurgia l’ultimo caso di ritorno in Università dagli Ospedali, che prima era stata la regola. Anche il suo Maestro, Roberto Alessandri, era arrivato alla Cattedra di Roma dopo essere stato precedentemente Primario al “S. Giacomo” e poi al “Policlinico Umberto I”: la Facoltà di Roma lo aveva chiamato alla unanimità a succedere a Francesco Durante nel 1919, considerandolo il migliore dei suoi allievi, come scrisse T. Ferretti nel “Policlinico – Sezione pratica” in quello stesso anno.
Chiamatovi dal voto unanime della Facoltà Medica, il Prof. Roberto Alessandri sale oggi in cattedra di quella Clinica Chirurgica, che fu gloria e vanto di Francesco Durante.
Di tutti gli allievi che circondarono l’insigne Maestro, per grande e lunga dimestichezza, felice armonia di sentimenti, niuno poteva essere più fedele interprete degli intendimenti, scientifici e clinici di colui, che creò la Chirurgia Italiana; niuno, per convinzione e per fede, strenuo campione degli alti ideali e delle nobili tradizioni della Scuola.
L’Alessandri non è un chirurgo ed un clinico dell’ultim’ora: negli Ospedali di Roma, maestro indiscusso ed impareggiabile della Chirurgia più audace e brillante, superò vincendoli per concorso, tutti i gradi della gerarchia, fino a che, nel 1903, non divenne Chirurgo Primario all’Ospedale di S. Giacomo prima, al Policlinico Umberto I poi.
I cimenti dolorosi della guerra mondiale lo videro in prima linea portare il soccorso volontario della sua scienza e della sua grande pietà fin presso le trincee e tra la gragnuola dei proiettili d’ogni misura. Fu così che, come Direttore della Ambulanza d’Armata, a Gorizia, si guadagnò la medaglia d’argento al valore.
Senza tener conto degli insegnamenti preziosi che con signorile dovizia egli profondeva a piene mani, nel giornale “La Clinica Chirurgica” del quale è Direttore, sono ben 145 le pubblicazioni sue, che fin’oggi han veduto la luce.
Gli studi sulla Patologia e sulla Chirurgia del rene formano “testo” e non han forse rivali nella letteratura straniera. Dai primissimi “sulle lesioni dei singoli elementi del cordone spermatico” e le loro conseguenze sulla glandola genitale, a quelli “sulla vaginale del testicolo”, sui “tumori d’origine surrenale”, sulla “legatura della vena emulgente, degli elementi dell’ilo renale”, ecc., ecc., ai più recenti sulla “pielotomia nella calcolosi renale”, ecc., abbiamo tutta serie di osservazioni e di studi, che nel loro insieme formano un vero e proprio trattato di Patologia e di Clinica speciale.
Osservazioni e indicazioni preziose troviamo poi nella serie ricchissima di lavori sulla Chirurgia di Guerra, lavori che sono i più recenti e nei quali l’A. ha profuso tanta dottrina e una ricchezza di buon senso e d’esperienza, quante basterebbero a creare la fama di più di un clinico.
Stefanini era stato da poco chiamato a Pisa quando morì Paolucci e si rese vacante Roma. Tornò dunque dopo 18 anni, nel 1959, nella sua città, accolto dalla simpatia dei romani medici e non, che in lui, semplice e spontaneo, ritrovavano il loro modo di essere. In breve conquistò la città ed anche l’Accademia. Lasciò a Valdoni il monopolio della cardiochirurgia, avventurandosi nel mondo inesplorato dei trapianti ed attivando le chirurgie specialistiche vascolare e toracica.
Al Policlinico si dovette accontentare del poco che Valdoni gli lasciò.
Il grande Clinico Valdoni tenne per sé il fabbricato originale della vecchia clinica chirurgica ed il nuovo fabbricato da lui stesso costruito per un totale di circa 400 letti. E tenne con sé un numero straordinario di Allievi superiore a cento. Intorno a lui in quegli anni si erano raccolti i figli della Roma bene ed anche i migliori talenti. La sua Scuola aveva già prodotto Piero Tonelli, rimasto in Cattedra a Firenze al posto del Maestro ma nella Capitale tra quei cento crebbero Lanzara, Biocca, Provenzale, Fegiz, Tagliacozzo, Monti, Leggeri, i fratelli Stipa che poi seguirono Biocca, Di Paola ed Angelini che seguirono Fegiz, Ricceri e Cappellini che entrambi morirono immaturamente e Francesco Tonelli che il padre aveva mandato alla Scuola del suo Maestro. E poi tanti altri: i cardiochirurghi come Benedetto Marino, gli anestesisti come Mazzoni, i plastici, i vascolari e tutti quelli da Blasucci a Thau che lasciarono l’Università per i Primariati Ospedalieri.
Stefanini arrivò col piccolo gruppo che da Perugia lo aveva seguito a Pisa ove rimase Selli ad occupare quella Cattedra. C’erano Castrini e Coppola che nel ’62 andarono il primo in Cattedra a Perugia ed il secondo al Primariato di Lucca, Costante Ricci, Alberto Baglioni, Vincenzo Speranza e Massimo Ermini. Dalla Clinica Chirurgica di Valdoni, ex Paolucci, emigrarono pochi giovani, Fiorani, Campioni, Carboni, Gentileschi, Rizzo, Pasquini, ed altri arrivarono dai diversi Ospedali d’Italia, Ribotta da Magliano Sabina, de Santis da Napoli, De Feo da Barletta, Mercati da Perugia, Fedele da un Padiglione Ospedaliero del Policlinico, Cortesini dal S. Giovanni con Casciani che lasciava la Clinica Medica di Condorelli. Ed in quei primi anni affluirono i neolaureati e si laurearono i primi interni, Arullani, Benedetti Valentini, Pistolese, Bonanome, Santoro, Carotenuto, Basso, Trecca, Cucchiara.
Da quella sera dunque in cui Valdoni annunciò lo sdoppiamento della Cattedra di clinica chirurgica cominciò l’era nuova. Successivamente nacque la III Clinica di Marcozzi che di Paolucci non solo era l’erede ma anche il marito dell’adorata unica figlia. E con lui crebbero Di Matteo, Martinelli, Beltrami, Messinetti, Montori, Campana e tanti altri.
Crebbe splendidamente anche l’Università Cattolica con il Policlinico “Agostino Gemelli” affidando le Cattedre chirurgiche prima a Castiglioni e Puglionisi e poi a Crucitti, Picciocchi, e ad altri più giovani ma altrettanto valenti. Per il Policlinico “Gemelli” passerà tanta storia della città e del Paese per i molti pazienti illustri che vi furono ricoverati ma soprattutto per lo straordinario intervento con cui Francesco Crucitti salvò la vita a Papa Giovanni Paolo II, ferito in piazza S. Pietro il 13 maggio 1981.
Crebbero intanto altri Ospedali, il “Sandro Pertini” a Pietralata, il “Grassi” di Ostia e prima il nuovo “S. Giovanni” ed il nuovo “S. Eugenio” e quelli religiosi, il “S. Pietro”, il “San Carlo”, il “Cristo Re” e si moltiplicarono i Primari Ospedalieri che da 10 degli anni 60 diventeranno 25 a fine secolo.
Ed aumenteranno le Facoltà di Medicina con la creazione dell’Università di Tor Vergata nel 1981, con il Campus Biomedico nel 1993 e con la seconda Facoltà di Medicina de “La Sapienza” nel nuovo Ospedale “S.Andrea” nel 1999.Anche l’Istituto per i Tumori Regina Elena fondato nel 1932 subirà in seguito una simile espansione, i Primariati di Chirurgia Generale dall’unico di Bastianelli e poi di Margottini, cresceranno a due con Ruggeri prima e Frezza e Manfredi poi, a tre con l’aggiunta di Stradone e poi con Cavaliere, Santoro e Campioni, oltre a quelli delle specialità chirurgiche: l’urologia di Cancrini, la ginecologia di Marziale e poi di Atlante, l’otorino di Garfagni prima e poi di Francesco Marzetti, scomparso prematuramente, e infine la neurochirurgia di Antonio Riccio e poi di Emanuele Occhipinti.
Il nome di Renato Cavaliere resta legato alla introduzione della perfusione ipertermica nel trattamento dei tumori degli arti, che realizzò per primo nel 1964. Con questa metodica, ripresa in tutto il mondo, sono stati trattati con straordinari successi centinaia di pazienti prima condannati all’amputazione. Cavaliere sul fronte delle neoplasie avanzate, trenta anni dopo divenne punto di riferimento nazionale per le peritonectomie.
Dante Manfredi negli anni ’80 avviò la chirurgia resettiva epatica secondo la Scuola Vietnamita.
Con Santoro dopo il 1990 fu potenziata l’attività di Chirurgia viscerale che riprendendo l’originaria impostazione di Bastianelli ridiventò pilastro fondamentale dell’attività dell’Istituto affiancando quella tradizionale di chirurgia mammaria. La chirurgia epato-bilio-pancreatica moderna, quella gastrica e quella del retto, anche nella logica delle terapie multimodali, diventeranno oggetto di specifica attività clinica e di ricerca. Fu anche avviata con rilevanza nazionale ed internazionale la chirurgia laparoscopica delle neoplasie del colon, dello stomaco e del pancreas. Ebbe infine rilievo la chirurgia di sostituzione dell’esofago cervicale con anse digiunali trapiantate al collo, con metodo microchirurgico, mai eseguita in precedenza a Roma.
Per l’Istituto il Secolo si chiude con il trasferimento dalla vecchia storica sede antistante il Policlinico Umberto I, nella nuova avveniristica sede dell’Ospedale “S.Raffaele” all’Eur.
Quattro anni dopo quella storica sera del 1966, Pietro Valdoni settantenne ma in eccellenti condizioni fisiche e mentali, lasciò l’insegnamento, la Cattedra, la Direzione della Clinica e delle Scuole di specializzazione che aveva creato. Lasciò un’eredità formale a Paolo Biocca che lo sostituì nella cattedra ed una sostanziale a Gianfranco Fegiz. Entrambi saranno anche Presidenti della Società Italiana di Chirurgia. Morì sei anni dopo, lui forte fumatore, per un cancro del polmone, che diagnosticò da solo e per il quale da solo definì il piano di cura. Fu giustamente commemorato come il Padre della Chirurgia contemporanea. Paride Stefanini lo ricordò sul quotidiano romano Il Tempo.
Valdoni è nato chirurgo e chirurgo è stato sempre.
Chirurgo tra i più grandi, certamente è il più grande del Suo periodo nel nostro Paese, uno fra i maggiori del mondo: accanto a una tecnica prodigiosa, aveva una capacità di intuizione rapida delle situazioni morbose cui seguiva una rapida, talora coraggiosa decisione. Ricordo, durante gli anni della permanenza vicino a lui, nella Clinica Chirurgica di Alessandri, il primo caso nel nostro Paese di operazione di Trendelemburg.
Egli, per primo in Italia, ha fatto la legatura del dotto di Botallo pervio (dotto arterioso di Botallo che fa comunicare nel circolo fetale, nella vita intrauterina, la circolazione aortica con quella polmonare e che è causa di gravi disturbi se alla nascita rimane pervio). È stato il primo a fare la divulsione della valvola mitrale secondo la tecnica di Blalock e ha ideato una notevole quantità di tecniche personali in vari campi della chirurgia.
Sono questi, la chirurgia addominale e toracica, compresa la chirurgia cardiaca, i settori in cui egli si è dedicato poi con maggior interesse durante gli anni romani. Non c’è però campo della chirurgia cui Valdoni non si sia accostato con successo. Io ricordo ad esempio che nel 40-41 egli fu il primo ad operare un’ernia discale nel nostro paese. Ecco quindi la vastità degli interessi del chirurgo e dello scienziato che sono una delle caratteristiche principali del Nostro.
Valdoni era un uomo per il quale la più stretta osservanza del dovere rappresentava l’aspetto particolare della legge morale che si era eretto a guida delle sue azioni. Quando egli fu consigliere del comune di Roma, non mancò ad una sola seduta destando la sorpresa e l’ammirazione di tutti i colleghi. Lo stesso senso del dovere egli ha portato nella scuola, dall’insegnamento agli studenti alla formazione di schiere di chirurghi che oggi occupano posti rilevanti nell’ambito universitario e nell’ambito ospedaliero.
Egli ha avuto riconoscimenti ambitissimi in ambito nazionale ed internazionale. È stato presidente, più volte, della Società italiana di Chirurgia, ed infine è stato nominato presidente onorario di questa Società, carica creata proprio per lui, per indicare in lui il promotore direi, della moderna chirurgia nel nostro paese.
All’estero i riconoscimenti sono stati innumerevoli. Dalla laurea ad honorem che egli ha avuto in diverse Facoltà mediche estere, alle nomine a membro onorario di molte società e voglio ricordare tra le altre le due Società chirurgiche più importanti, l’International College of Surgeons e la Societè Internationale de Chirurgie, alle onorificenze che gli sono venute da più parti, fra le quali, quelle a lui particolarmente care, dallo Stato pontificio per l’opera prestata a due Papi, Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI.
Ha lasciato Valdoni ai suoi allievi e alle schiere di chirurghi che verranno dopo di loro, due opere fondamentali e di grandissimo contenuto dottrinale: una il “Trattato di patologia chirurgica” di cui sono state fatte numerose edizioni e ristampe e che è il libro di patologia chirurgica più usato fra gli studenti di medicina nel nostro Paese, l’altra è “L’Atlante di tecniche chirurgiche” che egli, negli ultimi periodi della sua malattia, ha visto con grande soddisfazione edito in inglese.
Cinque anni dopo si spense anche la grande voce di Paride Stefanini. Anche la sua vecchiaia fu tormentata dalla malattia neoplastica, per la quale da solo scelse le cure ed accettò la sofferenza. Fu commemorato in primis dall’allora Presidente in carica della Società Italiana di Chirurgia, Pierluigi Cevese.
Paride Stefanini rappresentava il più dinamico di tutti noi, l’uomo che trovava il momento di dedicare la sua febbrile attività alle più differenti iniziative di ordine culturale, assistenziale ed umano.
Sotto questo profilo lo ricordiamo animatore entusiasta ed indefesso della scuola prodigiosa da lui diretta e dalla quale mossero i primi passi tanti altri colleghi, oggi cattedratici di chirurgia generale o di specialità chirurgiche. Lo ritroviamo relatore attento, preciso e impegnato, in congressi nazionali ed internazionali, sui più disparati argomenti di chirurgia applicata; lo rivediamo presidente o consigliere di società internazionali, di società ed accademie nazionali, sempre presente e sempre ideatore di nuove iniziative, intese al progresso delle conoscenze chirurgiche.
Come accademico, gli spettano tanti meriti come quello di aver collaborato al programma di riforma sanitaria ed alla ristrutturazione della facoltà medica e di essere stato praticamente il fondatore delle facoltà mediche dell’Aquila e di Mogadiscio.
Chirurgo distinto, allevato con Valdoni alla scuola del grande Alessandri, cominciò ben presto la sua attività operatoria che a poco a poco si diresse ad aggredire quasi tutti gli organi dell’anatomia umana; ma la sua tempra ed il suo stile lo portarono a vagheggiare una chirurgia diversa da quella demolitiva e questo suo orientamento raggiunse finalmente il traguardo ed il premio quando potè iniziare, in Italia per primo, la chirurgia dei trapianti d’organo, segnatamente del trapianto renale.
La rivoluzione iniziata quella sera del ’66 si completò negli anni ’80: la riforma universitaria, la cosiddetta tabella 18, modificano il curriculum degli studi e gli insegnamenti, non più clinica, patologia, semiotica ecc., ma semplicemente chirurgia generale o chirurgia digestiva, chirurgia oncologica. Cento diciassette anni dopo l’Unità d’Italia scompariva una delle categorie più illustri dell’Accademia, quella dei Clinici chirurghi e medici. Simultaneamente, il Policlinico Umberto I veniva consegnato interamente all’Università: la componente ospedaliera si trasferiva al nuovo ospedale “Sandro Pertini”. Ma la Chirurgia universitaria colse l’occasione per frammentarsi ulteriormente con oltre 20 Professori Ordinari di Chirurgia Generale, con altrettanti Associati ed un numero di Primariati passati dai 5-6 dei primi 60 anni del XX secolo, ad oltre 30. In fisica il fenomeno si chiama implosione, in chirurgia fu definito polverizzazione. Ma al tempo stesso si alzava ulteriormente il muro tra Università ed Ospedali. Dopo Stefanini, anni ’40, nessun ospedaliero era più stato chiamato in Università a Roma. Negli anni 80 e 90 anche il percorso inverso diventa assai
Negli anni ’70 e ’80 un gruppo di Chirurghi con precedenti universitari aveva affiancato gli Ospedalieri puri alla guida delle Divisioni Ospedaliere: tra i primi Manfredi, Fedele, Porzio, Santoro, Cucchiara, Thau, Carotenuto, Tersigni, tra i secondi Ascani, Bandini, D’Onofrio, Puntillo, Gargiulo, Cavaliere, Mascagni e tanti altri.
Negli anni ’90 il muro si alza ancora.
Lo supera Aldo Moraldi, sull’esempio del padre. Gli Ospedalieri per il resto riproducono se stessi, con orgoglio: primo tra tutti Titta Grassi, eccellente figlio di tanto padre, poi Giorgio Massi ma soprattutto il gruppo cresciuto con Santoro: Carlo Allegri, Massimo Mulieri, Franco Scutari, Alfredo Garofalo, Marco Sacchi in Chirurgia Generale, Aldo Felici in Chirurgia Plastica, Giuseppe Gentile e Franco Ciaraldi in Urologia.
Ed a fine Secolo Roma riserva una particolare sorpresa. Nell’ultimo Concorso di Cattedra di Chirurgia, vince tra gli altri, Chiara Montesani, moglie di Giorgio Ribotta: sarà la prima donna Professore di Chirurgia e Primario nella Capitale.
Attraverso queste e molte altre vicissitudini, la Scuola Romana ha improntato tutto il secolo della Chirurgia Italiana e della Società Italiana di Chirurgia, spargendo la propria luce anche oltre i confini d’Italia. L’allocuzione di Santoro al 100° Congresso della Società, tratteggia il legame tra Roma e la Società.
La Storia della Società Italiana di Chirurgia è fortemente intrecciata con quella della nostra Città Capitale. Nove dei trentadue Presidenti che mi hanno preceduto sono professionalmente romani tutti Clinici Chirurghi della Sapienza. Nessun’altra Università Italiana tanto ha avuto e tanto ha dato alla nostra Società.
Costanzo Mazzoni fu il Primo Presidente della nostra Società nel 1883. Era il grande Chirurgo della nuova Capitale d’Italia, da giovane in quegli anni eroici era divenuto noto come il Chirurgo della cannuccia per avere salvato la vita ad un infermo che stava per soffocare incidendo la trachea con un temperino che aveva in tasca ed introducendovi una canna di bambù. Morì poco più che sessantenne per un attacco cardiaco lungo la rampa di scale che saliva per andare a visitare un infermo. Scrisse di lui Baccelli commemorandolo “posto tra l’altrui beneficio e la propria conservazione preferì l’opera pietosa e cadde sul campo del dovere, insegnandoci non solo a vivere ma anche a morire”.
Gli succedette nella cattedra e nella Presidenza della Società Francesco Durante, la cui autorevolezza fu tale che mantenne la carica ininterrottamente per 34 anni, quando per limiti d’età, rinunciò anche all’insegnamento e si ritirò nella sua Letoianni.
Con lui si chiude anche l’epoca per così dire monarchica della nostra Società. Dal 1920 le Presidenze diventano brevi, uno o due anni spesso coincidendo con la Presidenza del Congresso.
Con il 1930 si ritorna all’antico. Prima Roberto Alessandri, sino al ’39, poi Raffaele Paolucci sino al ’46. Terzo e quarto, Presidente Romano, chirurghi di grande prestigio e Maestri di grandi Scuole.
Di Alessandri ricorderò che prima di assumere la Cattedra della Sapienza era stato Primario Ospedaliero per oltre 15 anni all’Ospedale S. Giacomo prima ed al Policlinico Umberto I poi, aveva dato il meglio di sé nella I Guerra Mondiale nelle trincee del Friuli, guadagnandosi la medaglia d’argento al valore. Per la Scuola Romana fu il padre della Chirurgia moderna e furono suoi allievi Valdoni e Stefanini.
Di quella Grande Guerra fu protagonista indimenticato anche Raffaele Paolucci di Valmaggiore, del quale in questi giorni ricorre l’ottantesimo anniversario della storica impresa di Pola. Ebbe la medaglia d’oro al Valor Militare. Fu Senatore della Repubblica.
Di Valdoni e Stefanini, mio maestro, quinto e sesto Presidenti Romani della Società, nulla posso aggiungere al commosso, devoto e vivo ricordo di molti qui tra noi, loro allievi che quotidianamente ne perpetuano la memoria e l’opera eccelsa. Ai loro nomi resta legata in Italia rispettivamente la Chirurgia Cardiaca e quella dei trapianti d’organo e ad entrambi la grande chirurgia viscerale e vascolare.
Settimo Presidente romano fu Paolo Biocca, erede diretto di Valdoni, come Gianfranco Fegiz, ottavo Presidente, presente stasera fra noi. Fegiz fu anche per molti anni Segretario della Società. Come fra noi stasera è anche Giorgio Di Matteo, nono Presidente romano nel cui Consiglio mi onoro di avere servito da Vice.
L’intreccio tra Roma e la chirurgia è poi particolarmente intenso a livello Congressuale. 51 dei nostri 100 Congressi hanno avuto luogo a Roma, compreso l’odierno di cui va il merito a Giorgio Ribotta, con il ringraziamento di tutti noi.
51 Congressi Romani, dalle Aule dell’Accademia Medica, a quelle della Sapienza sede centrale, a quelle del Policlinico Umberto I ed infine dal 1964 a quelle dell’Hotel Hilton sempre in un susseguirsi di grandi temi e grandi dibattiti di casistica e dottrina nel continuo aggiornarsi della pratica clinica per una chirurgia al passo con i tempi in Italia e nel mondo.
E Roma capitale d’Italia e della Chirurgia Italiana ha vissuto anche attraverso l’opera dei chirurghi la vita sociale e politica di questo secolo. Ho ricordato eventi straordinari della prima guerra mondiale, debbo ricordare il contributo dato dai Chirurghi alla seconda guerra mondiale dalla quale in molti non tornarono negli Ospedali Romani, come anche avvenne per tante altre città ed altri Ospedali Italiani.
Debbo ricordare tra gli altri meriti, non trascurabili della Chirurgia Romana, l’impegno eccezionale per il bombardamento di S. Lorenzo, quando il Policlinico e gli altri Ospedali furono sommersi dai feriti di quella immensa tragedia.
Ed infine gli attentati che potevano cambiare la storia, ai quali la chirurgia romana fece fronte: l’attentato al Duce, quello a Togliatti, quello al Papa. Mi sia così consentito ricordare la figura eccelsa di Francesco Crucitti che stasera dolorosamente non è più tra noi ed alla cui ferma mano, questo Secolo molto deve.
Quale è stata dunque la Chirurgia romana ed il suo contributo al progresso?
È stata innanzitutto una chirurgia coraggiosa e radicale. È stata una chirurgia anatomica ragionata, fatta con la pinza e con la forbice, utilizzando il dito o la via smussa solo quando indispensabile. Non a caso il nome di Durante è rimasto legato alla pinza chirurgica. È stata una chirurgia didattica per aver formato generazioni di chirurghi ed un numero straordinario di Professori Universitari per tutte le grandi città da Firenze a Trieste, da Cagliari a Palermo, da Pisa a Napoli ad Ancona, all’Aquila ed un numero eccezionale di Primari per ogni angolo del Paese, oltre che per la città capitale. Ed è stata una chirurgia innovativa. Qui nacque e crebbe nelle mani di quei chirurghi generali, da Durante a Bastianelli, da Alessandri a Puccinelli, a Paolucci, a Chidichimo, a Valdoni, a Stefanini, tutta la chirurgia specialistica, dalla neurochirurgia all’ortopedia, alla ginecologia, all’otorino, all’urologia sino alla cardiaca, alla vascolare, alla toracica, alla plastica, a quella dei trapianti d’organo. Ma qui è anche ovviamente cresciuta la grande chirurgia generale e digestiva, quella radicale del cancro, quella delle grandi demolizioni e quella conservativa della mammella, dello stomaco, del retto, quella epatica ed infine la mininvasiva.
Per l’intero secolo, i chirurghi romani hanno molto imparato girando per il mondo con grande curiosità e grande amore, ma anche molto hanno insegnato al mondo dalle loro sale operatorie, dal loro straordinario quotidiano lavoro, dai loro studi, dalle loro meravigliose casistiche.